Nella mia pratica professionale, mi capita sempre più spesso di aiutare le persone ad elaborare il lutto di una separazione o di un divorzio, o a sostenere i futuri ex coniugi nel passaggio ai nuovi assetti familiari coi figli.

Anche se il moderno immaginario comune da social network ( e non solo) descrive quest’esperienza come catartica e positiva, un divorzio è sempre doloroso e rappresenta sempre, sia per chi viene lasciato che per chi lascia, un fallimento.

Per i figli, se è pur vero che meritano dei genitori sereni e felici, la separazione della mamma e del papà è un trauma, una crisi con cui dovranno fare i conti, prima o poi, nel loro percorso di crescita.
Spesso le coppie potrebbero sopravvivere alle difficoltà che, nell’arco di una vita, sono inevitabili, magari con l’aiuto dello psicologo, qualora non riescano a trovare da soli risorse e strategie.

Purtroppo, nella maggior parte dei casi, “si parla” quando è troppo tardi e si tende a fare una sorta di autopsia della relazione, quando ormai l’unione è finita: ognuno si chiede cosa non ha funzionato, cerca preferibilmente gli errori dell’altro ed è indulgente coi propri; e la conclusione è, troppo spesso, un “è meglio così, almeno posso rifarmi una vita”: e si parte alla ricerca di un nuovo compagno/a con cui mettere su un’altra famiglia, rischiando di diventare dei “monogami seriali”, felici a quinquenni/decenni alterni.

In generale sappiamo che il 9% circa dei matrimoni più recenti non sopravvive alla crisi del settimo anno e che la durata media dei matrimoni che sfociano in una separazione è di 16 anni (fonte: http://www.istat.it/it/archivio/126552 ).

La società tutta si chiede come mai i matrimoni oggi sembrano funzionare meno di un tempo e la psicologia prova a dare probabili letture di ciò che accade.

Ma io in questi giorni (come fece prima di me l’illustre collega Donata Francescato in una riedizione del suo libro “Quando l’amore Finisce” http://www.ibs.it/code/9788815090300/francescato-donata/quando-amore-finisce.html), mi sto interrogando su cos’è che fa durare una coppia.

Attorno a me, nella mia vita privata, sono ormai circondata da coppie scoppiate, più che da famiglie felici e sono rimasta tra i pochi ad essere ancora sposata (per g25 NONNI coloriiunta, felicemente).

Quando un fenomeno di cui ti occupi arriva a riguardare le persone che ami, le domande che già ti ponevi per professione, le fai a te stesso ( e a tuo marito…): perché noi siamo felici? Come abbiamo fatto a restare indenni, finora, come coppia? Come ha fatto la nostra unione a sopravvivere alle notti insonni coi bebè, ai chili di troppo e la calvizie incipiente, alle frustrazioni lavorative, ai cambi di casa, al minor benessere economico, al minor tempo libero, ai lutti, all’invecchiamento dei genitori e alla routine?
Mio marito sostiene che è tutto merito suo e della sua proverbiale pazienza…ma come risposta non mi basta (non solo perché conosco davvero la sua pazienza), ma perché non credo alla fortuna di esserci incontrati: da sola non basta. Ho bisogno di risposte , non solo per continuare ad essere felice, ma per avere più strumenti a mia disposizione per aiutare quelle coppie che si rivolgono a me prima che sia troppo tardi o quegli individui che mi chiedono aiuto per non fallire di nuovo in un progetto di vita a due.

La prima risposta mi è venuta dalla pratica clinica, attraverso le testimonianze dei miei clienti divorziati e delle coppie in crisi, ho riscontrato degli errori comuni, e ho provato a tirarne fuori 3 “regole d’oro” per aiutare la coppia a non perdersi e proseguire felicemente il proprio viaggio a due:
1) dirsi quando qualcosa non va: comunicare le piccole insoddisfazioni, i piccoli malesseri, i piccoli disagi, perché il rischio è di aprire bocca quando si scoppia, quando la frustrazione ha coltivato rabbia e aggressività e parlare non serve più per costruire ma per ferire.
2) mai dare per scontata la felicità dell’altro: in un’ottica egocentrica, se stiamo bene noi, sta per forza bene anche il partner e spesso chiediamo “sei felice?” solo per essere rassicurati (magari da una bugia) e non per controllare lo stato della coppia.
3) mantenere spazi di condivisione e complicità di coppia (un hobby condiviso, un momento quotidiano, un appuntamento ”fisso”): troppo spesso, col tempo, vanno persi, per avere, invece, spazi individuali sempre più estesi e impegni a due magari solo come genitori.

La seconda risposta me l’ha data il mio amato Alfred Adler che, negli anni ’20, sosteneva che il matrimonio è l’aspetto più alto dell’amore e che l’amore rappresenta l’attaccamento ad un’altra persona manifestato attraverso attrazione fisica e amicizia, ma può funzionare soltanto se tra i due c’è una piena cooperazione e ciascuno dei due membri della coppia ha maggiori riguardi per l’altro che non per se stesso.

L’ultima risposta mi viene da un libro che con le coppie e il matrimonio, apparentemente, non ha nulla a che vedere, “Resisto dunque sono” di Pietro Trabucchi, un libro che parla di psicologia e sport e di “resilienza” (sulla resilienza forse potresti anche leggere: http://genitoricrescono.com/vaccinare-figli-contro-dolore/ ).
È proprio la personale definizione che ne da il mio stimato collega, che, a mio parere, calza alla perfezione ai matrimoni che funzionano, completando l’analisi che fece a suo tempo Adler:

“La resilienza psicologica è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino”

in cui la scelta del verbo “persistere” è per sottolineare l’idea di una motivazione che rimane salda (http://www.pietrotrabucchi.it/content.asp?ID=3 )

 

A questo punto, penso proprio che il “segreto” di un matrimonio che dura, sia la regola dei miei genitori: voler restare sposati e dirsi OGNI MATTINA, mettendo giù i piedi dal letto, “voglio che il mio matrimonio funzioni e oggi farò di tutto perché ciò accada”.

Quando vado a fare il lungo di corsa per le campagne dove abito, passo in mezzo a numerose cascine e in quasi tutte vi sono giochi per i bimbi, magari è una struttura di altalena ormai in disuso – i figli sono diventati grandi e anche i nipoti – ma resta il fatto che in ognuno di questi luoghi c’è uno spazio pensato per i bambini, per il gioco, per il loro movimento.

Questo paesaggio mi ha fatto tornare in mente un articolo di UPPA (https://www.uppa.it/), del pedagogista Daniele Novara, letto qualche mese fa, dal titolo “Il diritto di non stare fermi” (Anno XIV numero 6/2014).

L’articolo toccava diversi aspetti riguardanti il movimento dei bambini e la loro autonomia, ma in particolar modo evidenziava la carenza strutturale e di spazi dedicati all’espressione motoria all’interno delle scuole.

 

gioco liberoCi stiamo trovando a vivere in un paradosso: da una parte allarmi sulla sempre più diffusa obesità infantile e sull’aumento di patologie legate a deficit attentivi e difficoltà di apprendimento, dall’altra l’educazione fisica trattata, alla scuola primaria, come materia di serie B, e la possibilità di muoversi nell’intervallo eliminata con scopi punitivi oppure limitata per un eccesso di prudenza (i bambini possono farsi male o prendere troppo freddo o troppo caldo).

Il fatto che il nostro sistema nervoso si sviluppi attraverso la stimolazione senso-motoria (leggi anche https://relazionipositive.it/gioco-corro-salto-penso-giochi-di-movimento-e-processi-evolutivi/) e che numerosi studi abbiano dimostrato come l’attività fisica sia un bisogno fondamentale per gli esseri umani, perché riduce lo stress e l’ansia, aumenta le capacità mnemoniche e attentive e migliora le prestazioni scolastiche, sembra non essere sufficiente per riconsiderare l’atteggiamento nei confronti del movimento libero: un bimbo di 6-7 anni avrebbe bisogno di 3 ore di movimento al giorno in modo “imprescindibile, come le adeguate ore di sonno”!

Invece in molti quartieri di molte città non ci sono spazi a misura di bambino, le scuole hanno cortili usati come parcheggi, i bimbi si spostano quasi esclusivamente in automobile e raramente preferiscono le scale all’ascensore; infine l’attività fisica è tutta a carico (in senso economico e logistico), delle famiglie.

Allora, in questi giorni di “lezioni prova” e ripresa della scuola e delle attività sportive, vi invito a riflettere (e lo faccio anch’io come mamma) sull’importanza del movimento per i nostri bambini: questo loro bisogno non si esaurisce con le tre ore di pallavolo alla settimana, ma è un bisogno quotidiano.

Detta così, può farci venire un attacco di panico, ma tenerli attivi non vuol dire doverli oberare di mille impegni in palestra: basta semplicemente andare a scuola a piedi, fare le scale per tornare a casa, lasciare che si portino lo zaino, che spingano il carrello al supermercato e, magari, lasciarli giocare in cortile, mentre si prepara la cena, anche d’inverno o prevedere una toccata e fuga ai giardinetti, indipendentemente dalla stagione e dalle condizioni atmosferiche.

E allora, da domani mattina, facciamo a chi arriva primo al portone?

 

relazioni positiveEccomi qua, alla fine ci sono “cascata” anch’io.

Mi sono dovuta arrendere, perché una volta c’erano gli elenchi del telefono, per farsi trovare dai possibili clienti, oggi ci sono le “nuove” tecnologie.

L’altro imperativo categorico del marketing per lo psicologo e lo psicoterapeuta sembra essere l’iper-specializzazione in qualche nicchia di mercato o tipo d’utenza; per la serie: siamo talmente tanti che più fai una cosa specifica, più è probabile che riuscirai a campare col tuo lavoro.

Panico! Non ce la posso fare. Non ce la posso fare a scrivere periodicamente qualcosa che sia almeno vagamente interessante o intelligente, ma soprattutto non mi ci vedo a fare tutti i giorni la stessa cosa, ad occuparmi di un solo tipo di utenza, o problematica: perderei la mia energia vitale e il piacere di fare il mio lavoro!

E quindi?

Quindi mi adeguo, in parte, ma mi adeguo per non soccombere, perché amo il mio lavoro, anche quando è frustrante e faticoso, e lo amo così tanto che voglio vivere facendo la psicologa. E devo fare marketing.
Quindi: ecco a voi il mio spazio, Relazioni Positive, l’ennesimo blog/sito di uno strizzacervelli che dice la sua.

Relazioni Positive perché, riflettendo su di me e il mio lavoro, ho capito che è questa la mia nicchia di mercato. Mi occupo da sempre di benessere psicologico, non solo del suo recupero, ma di coltivarlo e alimentarlo.

E le Relazioni Positive sono uno degli elementi fondamentali del benessere psicofisico, evidenziati dalla ricerca più recente (insieme a autonomia, padronanza ambientale, crescita personale, avere uno scopo nella vita e autoaccettazione), ma che già Adler (https://it.wikipedia.org/wiki/Alfred_Adler), ai suoi tempi , aveva capito essere cruciali.

Vi avviso, sarò me stessa, la versione più professionale di me stessa, ma pur sempre me stessa: pubblicherò a ritmi balzani, scrivendo su quel che mi ispira in quel momento e quando avrò tempo (ovvero quando non sarò al lavoro, non sarò con la mia famiglia, non starò facendo il pane, o non starò correndo); sarò sincera e diretta, anche se professionale e seria.

Sicuramente, se volete capire se posso esservi di aiuto, questo è il posto giusto per scoprirlo.

La psicomotricità è una disciplina che ha avuto origine in Francia, e si è espressa attraverso diverse “scuole”; si è sviluppata in Italia alla fine degli anni ’60 e trova i suoi ambiti di intervento nell’educazione, nella terapia, nella formazione.

Tra le diverse spsicomotricità 1-3cuole di psicomotricità esistenti, una delle più note e diffuse è quella che segue il “Metodo Aucouturier”.

La Pratica Psicomotoria educativa e preventiva è un’attività rivolta ai bambini che mira a favorire lo sviluppo, la maturazione e l’espressione delle potenzialità del bambino a livello motorio, affettivo, relazionale, cognitivo e di strutturazione dell’identità, utilizzando il gioco spontaneo, il movimento, l’azione e la rappresentazione.

Più precisamente mira a favorire lo sviluppo della funzione simbolica attraverso il piacere di agire, giocare e creare; a favorire lo sviluppo dei processi di rassicurazione rispetto alle angosce tramite il piacere di tutte le attività ludiche; a favorire lo sviluppo dei processi di decentramento permettendo l’apertura al piacere di pensare e al pensiero operatorio.

La Pratica Psicomotoria si occupa, quindi, della globalità del bambino, inteso come unità biopsichica, e si pone come obiettivo il suo sviluppo psicologico attraverso la via sensomotoria.

Il bambino piccolo struttura la propria personalità a partire dalle sensazioni che riceve attraverso il suo corpo, il movimento, l’azione e il piacere che essa genera, stando in relazione con l’altro: il bambino non gioca per imparare ma impara perché gioca.

Nel movimento esprime le sue emozioni e la sua vita affettiva profonda.

Il ruolo dell’adulto è quello di garante della sicurezza, diventa partner simbolico di gioco, quando è necessario, non impone nessun gioco o attività e si pone con atteggiamento empatico nei confronti dei bambini, accogliendone l’espressività e le creazioni senza darne un valore di merito, favorendo la realizzazione di un clima di fiducia nel quale il bambino si sente accolto nella sua unicità e rassicurato.

 

E per i DSC_0367bimbi piccoli piccoli?

Visto che lo sviluppo del bambino è fondato sul somatomotorio e che per poter arrivare a pensare per simboli deve strutturare il sistema nervoso attraverso l’esperienza tattile-motoria-esplorativa da neonati e poi attraverso il movimento libero nello spazio quando conquistano postura eretta e deambulazione sicura, a partire dai 3 mesi circa, quando il neonato comincia ad avere momenti di veglia attiva, ha bisogno di movimento libero e quindi di uno spazio adeguato approntato per questo scopo.

Secondo il “modello Lokzy” e seguendo la pratica Aucouturier, il posto migliore è il pavimento: solido, ma coperto con piccoli materassi per attutire le “cadute”, arricchito da cuscini, piani inclinati e spessori differenti, nonchè una scelta di materiali semplici, colorati, di natura diversa, da poter afferrare, mordere e gettare via.

L’adulto non si deve aspettare che i bimbi facciano cose particolari, nè sostituirsi a loro, facendogli fare cose di cui non hanno ancora la competenza o mettendoli in situazioni da cui non sanno uscire da soli (ad es. stare seduti o in piedi), deve lasciarli il più possibile liberi di prendere l’iniziativa o di stare a guardare, senza chiedere che facciano cose che non stanno nei loro progetti, ma si può giocare con loro quando si sente che ne hanno bisogno per potersi attivare.

Il ruolo dell’adulto è quello di “base sicura”: i bambini molto piccoli, per poter esplorare liberamente, devono essere rassicurati dalla presenza di una figura di riferimento, che, inoltre, accompagni le emozioni e le scoperte del bimbo coi gesti e con le parole, aiutandolo ad integrare azione, sensazione ed emozione.

gioco liberoCome nasce la vita psichica del bambino?

Neuroscienze, teorie dello sviluppo e psicoanalisi sono concordi nel ritenere che il bambino sano nasca potenzialmente competente, dotato di tutto ciò che gli serve per crescere fisicamente, intellettualmente e psichicamente.

Il neonato è attivo nel suo sviluppo da subito e pieno di iniziative.
Inizialmente il compito dell’adulto è “solo” quello di catalizzare queste competenze, permettendogli di esperienziare la realtà in modo corretto e sicuro e creando, quindi, le condizioni affinché lo sviluppo prenda avvio.
“Lo sviluppo del bambino e del suo apparato psichico si gioca nell’interfaccia del dentro e del fuori, tra i fattori endogeni del neonato e i fattori esterni, dell’ambiente. Il neonato porta tutto il suo apparato genetico e il suo corpo, ma il suo sviluppo si gioca nell’incontro col suo ambiente e in particolare nell’incontro con lo psichismo dell’altro”[1].

Il neonato incontra l’ambiente attraverso i cinque sensi, primo fra tutti il tatto e “viene toccato dagli oggetti che tocca”[2]; sperimentando e integrando le sensazioni che derivano dal suo corpo, costruisce la propria immagine corporea e il Sé e comincia un “primo lavoro per poter arrivare a pensare il mondo attorno a lui”[3], categorizzando (morbido, duro, ruvido, liscio, freddo, caldo, etc.), classificando (ad esempio cose diverse che fanno la stessa cosa, che si possono sbattere, sfregare, muovere, etc.) e organizzando le sensazioni corporee: il bambino pensa in presenza degli oggetti e delle sensazioni corporee.
“La capacità di riconoscere il mondo ha [però] due radici: una corporea e una relazionale”[4]: poiché, come diceva Winnicott, un bambino tutto solo non esiste, per organizzare pensieri, percezioni e sensazioni ha bisogno anche di un ancoraggio interattivo, di essere in relazione ad un adulto. La relazione attiva il pensiero: il bambino pensa in presenza della madre.

Alle esperienze di sensazione, ad un certo punto, si uniscono quelle motorie: il bambino che ha interiorizzato il senso di sicurezza (modello operativo interno della base sicura[5]) comincia ad esplorare il mondo; il bambino che ha sperimentato contemporaneamente il piacere dell’essere contenuto e dell’aver contenuto qualcosa di buono (il cibo), cercherà di riprodurre quest’esperienza piacevole nell’ambiente, mettendo le cose in bocca: quest’azione lo porterà ad aumentare la propria esperienza incontrando altre cose o persone.

Inizialmente il comportamento di esplorazione è generato dal caso (perde l’oggetto che ha in mano per portarlo alla bocca) e dal ricercare l’oggetto che ha generato piacere; successivamente il bambino ricercherà attivamente l’occasione di esplorare (getta l’oggetto che ha in mano) diventando in grado, così, di trasformare l’ambiente e sperimentando in questo modo il piacere di funzionare: il bambino non cerca più solo l’oggetto che ha generato piacere, ma è l’azione che lo ha portato a trovare l’oggetto a dargli piacere; ciò genera un investimento sempre maggiore nell’esplorazione e nel gioco, più che sugli oggetti. Il pensiero diviene, quindi, azione.

“Il pensiero non e’ altro che azione interiorizzata”[6]; nel bambino pensiero e azione sono assolutamente indissociabili (solo crescendo si potrà pensare senza agire): la motricità ha un legame molto stretto con l’attività di pensiero, ma non è la semplice traduzione in azione del pensiero, bensì è la rappresentazione del pensiero stesso.
Il bambino necessita, pertanto, per consolidare i propri processi evolutivi globali, di una determinata quantità e qualità di movimento fisico.

 

Per capire di che tipo di movimento hanno bisogno gli individui in età evolutiva per sostenere adeguatamente il proprio sviluppo, basta ripensare alla propria infanzia: come ama domandare ogni anno, durante la sua lezione sul movimento nell’arrampicata libera, l’amico Giacomo Ambrosino[7], chi tra noi da bambino non si è mai arrampicato su un albero, su su fino in cima, per mangiare le ciliege?esplorare
E’ un bisogno basilare dei bambini, guidato dalla curiosità, quello di affrontare sempre nuove sfide dall’esito non calcolabile a priori. Mettere alla prova il proprio corpo in contesti limite è un gioco estremamente stimolante. Soprattutto nei primi undici anni di vita, i bambini hanno bisogno di svolgere attività fisiche varie e stimolanti, che implichino qualche rischio e non siano prescrittive, come arrampicare, salire, stare in equilibrio, saltare, oscillare, dondolare ecc.

La tanto ambita “avventura” comincia proprio lì, dove si lascia il conosciuto, il controllato, per impegnarsi e affermarsi in nuove sfide.

Le concezioni psico-pedagogiche moderne vedono nelle situazioni di stimolazione motoria la chiave per acquisire, attraverso il gioco, anche le competenze che sono alla base della fiducia in se stessi.
L’affrontare situazioni di incertezza e di rischio, pensate dall’adulto in modo, per così dire, pedagogicamente responsabile, rappresenta il modo giusto per gestire le ansie e promuovere la responsabilizzazione personale.
Nei bambini, dunque, la sicurezza nei movimenti e le conquiste psico-emozionali ad essa strettamente correlate, quali la fiducia nelle proprie potenzialità, crescono di pari passo con il superamento delle esperienze più stimolanti!
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[1] B. Golse “Dal corpo al pensiero: i primi anni di vita del bambino” seminario, Torino 9 maggio 2009
[2] vedi nota 1.
[3] A.M. Bastianini e E. Chicco “Psicologia dello sviluppo” seminario, Torino 5 febbraio 2005
[4] vedi nota 1.
[5] J. Bowlby, 1988.
[6] Piaget 1968 (?)
[7] INAL (istruttore nazionale di arrampicata libera), membro del CAI sezione di Orbassano.