COME SI FA A FAR DURARE UNA RELAZIONE?

Torna l’APERICENA CON LA PSICOLOGA

organizzato da OneParent Piemonte

Alla ricerca dei motivi che hanno fatto naufragare il nostro amore, è più facile fare l’autopsia della coppia che scoppia  e con più fatica ci chiediamo come si può fare a far durare una relazione: preferiamo pensare che sia un mito irraggiungibile o qualcosa di innaturale!

In questa serata proveremo, invece, a capire insieme se esistono delle buone prassi, che ci aiutino a vivere “insieme per sempre, felici e contenti”, ma soprattutto evitare di diventare dei monogami seriali, nell’infruttuosa ricerca della felicità a due.

 

Fai parte di un’associazione? Gestisci un nido o uno spazio ricreativo? Oppure hai un gruppo di amici e vi piace confrontarvi sulle tematiche psicologiche? Siamo disponibili ad organizzare incontri a tema per associazioni e gruppi, anche presso il mio studio (capienza massima 18 persone). Non esitate a contattarmi per informazioni e costi al 347 10 74 314  oppure tramite email elena.sardo@relazionipositive.it

prova costumeEccoci arrivati al primo week end di luglio!

Siete pronti per la prova costume?

Questa è la domanda che, da maggio in poi, leggiamo un po’ ovunque: una frase come un’altra, che segna l’inizio di una stagione, come le foto degli abeti sui social, che dicono “è quasi Natale!”.

Ma è davvero una frase come un’altra?

 

No, non lo è! E’ l’espressione più evidente della diet culture, fenomeno che fa girare miliardi attorno al controllo del peso delle persone, che però

✓ sono perennemente a dieta, ma sempre più in sovrappeso (1/3 della popolazione adulta in Italia lo è)

✓ si rivolge prevalentemente alle donne, ma l’eccesso di peso è più diffuso tra gli uomini (sovrappeso: 44% vs 27,3%; obesità: 10,8% vs 9%, dati dell’Istituto Superiore di Sanità).

Questa frase dice che le donne DEVONO preparare il corpo, in breve tempo, per fare qualcosa per cui non occorrerebbe fare nulla: svestirsi per andare in spiaggia.

Sottintende che così come siamo non andiamo bene e che dobbiamo omologare il nostro corpo, renderlo conforme a misure standardizzate e uguali per tutte:

così saremo gradevoli agli occhi di chi ci guarderà!

 

Spesso l’intento meramente estetico viene nascosto dietro un falso ideale di salute

magro = sano/grasso = malato

Per la società il corpo femminile è un involucro, che deve essere piacevole per gli altri, valutato esclusivamente dal punto di vista estetico, ma mai rispetto al suo uso, alla sua efficienza e alla sua salute (vera).

VOLENTI O NOLENTI, LE IMMAGINI VEICOLATE DAI MEDIA CI INFLUENZANO

Questi costrutti culturali ci fanno sentire inadeguate, facendoci dichiarare guerra al nostro corpo, che non corrisponderà mai ai canoni imposti e di moda.

Questo può farci ammalare, nel corpo e nella mente: nel “migliore” dei casi siamo infelici e perennemente insoddisfatte (e a dieta), nel peggiore dei casi possono insorgere disturbi del comportamento alimentare e distorsione dell’immagine corporea.

A portare avanti questo fenomeno culturale, ci guadagna l’industria della dieta, ovvero tutti quei soggetti o prodotti, che ci promettono di diventare conformi e adatte a vestire il costume da bagno, in poco tempo e magari senza troppa fatica.

Il danno che ne deriva può riguardare anche la salute fisica (disregolazioni metaboliche o patologie) non solo quella mentale.

Questi messaggi ci fanno dimenticare che le misure e il peso forma sono differenti per ognuna (e ognuno) di noi.

La salute del nostro corpo è il risultato di un corretto stile di vita:

❀ alimentazione sana e più varia possibile

❀ adeguata quantità di moto, per regolare il tono dell’umore ed essere più sereni ed equilibrati

L’alimentazione per noi esseri umani ha un legame stretto con fattori psicologici ed emozionali, che non possono essere ignorati!

Per quest’anno lasciamo perdere la prova costume e proviamo a convivere serenamente con il nostro corpo, perché è l’unico che abbiamo, fa un sacco di cose belle e utili per noi e dobbiamo viverci per sempre.

E se qualcosa non dovesse piacerci, cambiamolo per stare meglio, diffidando delle diete restrittive e dei prodotti magici, preferendo rivolgerci a preparatə professionistə (dietologə, nutrizionistə e dietistə) e magari anche allə psicolə per aiutarci a consapevolizzare i legami emotivi, a sostenere la motivazione e a ristrutturare il nostro stile di vita, creando nuove e piacevoli abitudini.

Dopo oltre un anno, cominciamo a fare i conti anche in termini di salute mentale, con l’impatto che ha avuto la pandemia su di noi.

Per i bambini, vedremo tra qualche tempo, quali saranno le conseguenze a lungo termine di restrizioni, isolamento e DAD sulla loro crescita, ma sugli adolescenti sappiamo già oggi che sono aumentati gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio (dati diffusi dal Garante dell’Infanzia e adolescenza Carla Garlatti e dati raccolti dall’Ospedale pediatrico Bambino Gesù):

durante questo periodo di stravolgimento mondiale, i giovani hanno sviluppato stanchezza cronica, demotivazione allo studio, tristezza, appiattimento dell’affettività o maggiore irritabilità e, nelle forme più importanti, depressione del tono dell’umore, ansia, attacchi di panico, irrequietezza, impulsività e, nei casi estremi, disturbi di tipo psicotico (per approfondire https://www.dors.it/page.php?idarticolo=3548).

Senza ombra di dubbio gli adolescenti sono la categoria più colpita dalla pandemia.

Purtroppo, ogni volta che si parla della situazione psicologica dei ragazzi, i commenti sono davvero deprecabili: è una gara a chi sta peggio, in cui i cosiddetti adulti, pretendono il primato dell’attenzione, minimizzando e svalorizzando l’esperienza dei nostri giovani.

Secondo l’opinione diffusa, se gli adolescenti ora stanno pagando il prezzo più alto in termini di salute mentale, è solo colpa loro, quindi, in seconda istanza, delle loro famiglie: chi soffre davvero, secondo il popolo dei social e dei bar, sono solo gli anziani o gli adulti “produttivi”.

La verità è che le cause di questo grave malessere, non sono da ricercare nelle carenze educative familiari, ma riguardano con le caratteristiche neurobiologiche del cervello umano, durante quello specifico momento del nostro sviluppo: l’adolescenza non è un passaggio tra la vita infantile e quella adulta solo in senso filosofico o figurato, ma è qualcosa di concretamente determinato.

Grazie agli studi di neurobiologia e neurofisiologia, sappiamo che un cervello tra la pre-adolescenza e fino ai venti-venticinque anni, subisce grandi trasformazioni strutturali, a causa dei fenomeni della “potatura sinaptica” e della “mielinizzazione”:

vengono concretamente eliminate il 50% delle connessioni sinaptiche, che si sono formate durante l’infanzia, selezionando quelle maggiormente utilizzate (più i circuiti vengono attivati/usati, più si rafforzano, meno sono utilizzati, più probabilmente vengono potati in adolescenza) e contemporaneamente la mielina quasi raddoppia, rendendo più rapida la propagazione dei messaggi nervosi. Aggiungiamo che, il cervello degli adolescenti è caratterizzato da una maggior attività nelle aree limbiche, e quindi le loro emozioni sono più intense, esplosive e altalenanti.

Questi cambiamenti cerebrali spingono gli adolescenti all’esplorazione creativa, al coinvolgimento sociale e alla ricerca di novità, attività cessate nel lockdown e che si sono ridotte al nulla, con la mancata riapertura di scuole e attività sportive e culturali.

 

Questa grande plasticità cerebrale, costituisce non solo un’opportunità, ma anche una grande fragilità e vulnerabilità: il cervello adolescente è particolarmente sensibile agli stress, di qualsiasi natura, fisici, tossici, psicologici e relazionali, che possono molto più facilmente produrre effetti negativi, rispetto ad un cervello adulto, più strutturalmente stabile.

Alla luce di queste informazioni scientifiche, è chiaro perché questa situazione ha rappresentato e sta rappresentando una prova drammatica per la crescita dei nostri ragazzi.

Proviamo a ricordarci davvero di come eravamo e proviamo a stare loro accanto, perché il nostro comportamento nei loro confronti può fare tanto, in termini di protezione e cura: non dimentichiamoci che anche noi siamo stati adolescenti e che loro sono il nostro futuro.

Non esitate a chiedere aiuto come genitori o a chiederlo per i vostri figli!

SAREMO MIGLIORI GRAZIE AL COVID?

A maggio dello scorso anno,

scrivevo questo articolo per Il Mondo di None.

 

Oggi, nella Giornata Nazionale in Memoria della Vittime del Covid, la riflessione è doverosa e purtroppo attuale.

La mia energia vitale, per affrontare tutto ciò correttamente, come suggerivo un anno fa, si è ridotta al lumicino.

Nei giorni del confinamento (lockdown per gli esterofili), ad un certo punto è balzata alle labbra, e alle dita da social, di molti, la frase #saremomigliori (insieme alla gettonatissima e dotata di arcobaleni #andràtuttobene), messaggi pregni di una positività fine a se stessa, parole vuote usate come slogan.

Davvero si può migliorare così, come se fosse un premio per essere stati bravi, come la caramella data al bambino, perché è stato seduto tranquillo, nella sala d’aspetto della posta?

 

Purtroppo migliorare richiede sforzo e impegno, soprattutto se il miglioramento di noi stessi scaturisce da una difficoltà, un dolore, una perdita.

Nei miei ormai 20 anni da psicologa ho visto spessissimo le persone migliorarsi, anche solo attraverso un corso di formazione professionale, ma sempre passando dalla consapevolezza di volerlo fare e di come farlo, quale strada intraprendere per essere migliori e sempre con profusa fatica ed impegno.

Alfred Adler pensava che l’essere umano è spinto nei suoi comportamenti dalla sua capacità di darsi degli obiettivi, dei progetti da realizzare, delle mete,  che lo orientano verso il futuro, ma teorizzò anche l’esistenza di mete inconsce, emotivamente potenti e in grado di interferire con l’esperienza cosciente.

Perché, allora, non è automatico cambiare in meglio?

Tutto dipende da come funziona il nostro cervello.

Visto che siamo esseri complessi, immersi in una realtà anch’essa molto complessa, il nostro sistema nervoso centrale si è evoluto, mettendo a punto strategie e meccanismi, atti a farci funzionare il meglio possibile nel tempo più breve possibile.

Questo vuol dire, però, che spesso funzioniamo, ovvero ci comportiamo, attraverso abitudini o scorciatoie mentali, comportamenti che non sono i migliori, nel senso che ci fanno migliorare, ma semplicemente sono quelli che ci fanno agire più in fretta e con meno fatica o che ci riportano più rapidamente ad una situazione di omeostasi, ovvero di relativa stabilità e calma.

A questo dobbiamo affiancare il fatto che le prime reazioni alle emozioni sono sempre…emotive, quindi irrazionali: di fronte, ad esempio, ad una grande paura, possiamo reagire con comportamenti adeguati (come la fuga o restare chiusi in casa) oppure, viceversa, la paura è così grande per la nostra mente, che possiamo reagire con comportamenti di rischio, finalizzati non a proteggerci, ma ad esorcizzare quest’emozione che non ci piace.

Il nostro cervello tende a programmarsi, dunque, a condizionarsi, portandoci a reagire in modo automatico: questi automatismi possono essere modificati, ma solo se si agisce in modo attivo e consapevole.

Bisogna perciò allenare il cervello ad affrontare le cose sforzandosi di vederle da differenti punti di vista, prendendosi un po’ più di tempo, in modo da essere più riflessivi, e mettendo in campo più presenza di spirito.

Il primo passo nella situazione pandemica che stiamo vivendo, con il confinamento prima e con la fase 2 adesso, potrebbe essere quello di cominciare a vedere che nelle avversità ci sono opportunità.

Occorre concentrarsi su quello che abbiamo, per poco che possa essere, e non su quello che ci manca, ma soprattutto dovremmo ri-imparare ad affrontare le difficoltà che la vita ci presenta, come sfide, ostacoli da superare, anziché ingiustizie o sfortune di cui lagnarci.

 

Per essere migliori, dunque, dobbiamo porci obiettivi, perseguirli in modo consapevole, riflettere sulle nostre mete inconsce e guardare alle avversità come sfide e non solo saremo migliori, ma saremo anche resilienti.

Con una cadenza e una frequenza impressionanti, le cronache ci raccontano di femminicidi, spesso con annesso figlicidio.

Nonostante il codice etico, che si sono dati all’Ordine dei giornalisti, sottoscritto nel Manifesto di Venezia del 25 novembre del 2017), queste notizie vengono quasi sempre riportate in maniera scorretta, dannosa e fuorviante, anche dal punto di vista della malattia mentale.

L’opinione pubblica ricerca la causa di questi gesti efferati nel disagio mentale,

nella depressione scaturita dalla crisi coniugale.

Attribuire le colpe di un omicidio alla vittima è immorale , ma è anche “clinicamente” sbagliato.

Un individuo depresso non commette omicidio: nelle forme gravi di depressione, chi ne è affetto, ci dicono gli studi clinici ed epidemiologici, può avere idee suicidarie e tentare di metterle in pratica, ma non ha le energie mentali per uccidere, magari a seguito di un eccesso di rabbia o per pianificare uno o più omicidi.

Solo nel caso della più grave forma di depressione post partum (DPP), che è un caso davvero particolare, possiamo assistere al suicidio con omicidio del bambino: questo avviene, perché il legame tra madre e neonato è di tipo simbiotico e ciò vuol dire che non c’è una netta distinzione tra la propria identità e quella del bambino (più è piccolo e più questa unione è stretta); per capire questo fatto, basti pensare, che l’esame elettroencefalografico evidenzia come le onde cerebrali di mamma e bebè siano sincronizzate tra loro. Per questa ragione la mamma uccide il figlio, che non viene percepito come “altro da sé”, ma come parte di se stessa. Va anche detto che in questo tipo di DPP, quasi sempre c’è la compresenza di una forma di disturbo psichiatrico più grave, rimasto latente.

Allora perché questi mariti e padri “esemplari” uccidono?

Partiamo dal primo fatto: forse così esemplari non erano.

Erano depressi? Può darsi, ma non è sicuramente la depressione che li ha spinti ad uccidere, come abbiamo visto.

Allora perché uccidono le ex compagne e magari anche i loro figli? Se escludiamo la depressione e, più in generale la malattia mentale, che cosa può influenzare il comportamento di un essere umano così tanto da spingerlo all’omicidio?

Secondo il paradigma bio-psico-sociale, modello condiviso di tipo olistico globale ed integrato, per la lettura del funzionamento dell’essere umano, ogni individuo è il frutto dell’interazione intricata e variabile di fattori biologici (genetici, biochimici, etc.), psicologici (umore, personalità, comportamento etc.) e sociali (culturali, familiari, socio-economici, ecc.).

A questo punto possiamo dire che

– la prima spinta ad uccidere una donna (e i propri figli) è di tipo socioculturale: la cultura maschilista e patriarcale, ancora fortemente radicata nella nostra società, vuole la donna priva di propri desideri e aspirazioni, dipinta nelle due accezioni antitetiche di santa/puttana, subalterna all’uomo, “creata” per lui, per compiacerlo: questo fa si che per molti uomini sia ancora inaccettabile essere lasciati, perché la donna è un gradino sotto all’uomo, più vicina ad un oggetto che ad un essere umano, un oggetto di cui disporre, che non può essere dotato di autonomia decisionale: se mi lasci ti annullo, se ti lascio e ti innamori di qualcun altro, ti uccido, perché sei una mia proprietà.

– La seconda spinta è di tipo psicologico: parliamo di narcisismo, dell’incapacità di sopravvivere alla ferita del non essere più amati, dell’essere rifiutati e lasciati o dell’essere “sostituiti” da una nuova relazione, ma un narcisismo che non è più da intendersi solo come patologia, frutto di un’educazione che spinge l’individuo a sentirsi centro dell’universo, e quindi onnipotente, non allenato a sopravvivere alle sconfitte e non in grado di accogliere, come degne, emozioni e desideri altrui, ma anche come atteggiamento sempre più diffuso e strisciante nella società, come modello condiviso, in cui “l’altro” scompare piano piano e in cui assistiamo ad una progressiva perdita di identificazione ed empatia: la ferita può essere così forte, bruciante ed intollerabile, e il conseguente  desiderio di rivalsa e vendetta così forti, da spingere l’individuo a mettere in atto la propria onnipotenza in senso letterale, come potere divino di vita e di morte sull’altro.

Per fermare la violenza sulle donne occorre, quindi, ripartire dalla società e dall’educazione, smettere di trovare le cause nella malattia, riprendere un percorso di evoluzione verso una reale parità e dignità tra i generi, passando per un’educazione emotiva ed affettiva della future generazioni,

così che possano diventare individui adulti autonomi sicuri e liberi,

liberi soprattutto di amare e rispettare il prossimo.

@ClaudioBonifazio