A maggio dello scorso anno,
scrivevo questo articolo per Il Mondo di None.
Oggi, nella Giornata Nazionale in Memoria della Vittime del Covid, la riflessione è doverosa e purtroppo attuale.
La mia energia vitale, per affrontare tutto ciò correttamente, come suggerivo un anno fa, si è ridotta al lumicino.
Nei giorni del confinamento (lockdown per gli esterofili), ad un certo punto è balzata alle labbra, e alle dita da social, di molti, la frase #saremomigliori (insieme alla gettonatissima e dotata di arcobaleni #andràtuttobene), messaggi pregni di una positività fine a se stessa, parole vuote usate come slogan.
Davvero si può migliorare così, come se fosse un premio per essere stati bravi, come la caramella data al bambino, perché è stato seduto tranquillo, nella sala d’aspetto della posta?
Purtroppo migliorare richiede sforzo e impegno, soprattutto se il miglioramento di noi stessi scaturisce da una difficoltà, un dolore, una perdita.
Nei miei ormai 20 anni da psicologa ho visto spessissimo le persone migliorarsi, anche solo attraverso un corso di formazione professionale, ma sempre passando dalla consapevolezza di volerlo fare e di come farlo, quale strada intraprendere per essere migliori e sempre con profusa fatica ed impegno.
Alfred Adler pensava che l’essere umano è spinto nei suoi comportamenti dalla sua capacità di darsi degli obiettivi, dei progetti da realizzare, delle mete, che lo orientano verso il futuro, ma teorizzò anche l’esistenza di mete inconsce, emotivamente potenti e in grado di interferire con l’esperienza cosciente.
Perché, allora, non è automatico cambiare in meglio?
Tutto dipende da come funziona il nostro cervello.
Visto che siamo esseri complessi, immersi in una realtà anch’essa molto complessa, il nostro sistema nervoso centrale si è evoluto, mettendo a punto strategie e meccanismi, atti a farci funzionare il meglio possibile nel tempo più breve possibile.
Questo vuol dire, però, che spesso funzioniamo, ovvero ci comportiamo, attraverso abitudini o scorciatoie mentali, comportamenti che non sono i migliori, nel senso che ci fanno migliorare, ma semplicemente sono quelli che ci fanno agire più in fretta e con meno fatica o che ci riportano più rapidamente ad una situazione di omeostasi, ovvero di relativa stabilità e calma.
A questo dobbiamo affiancare il fatto che le prime reazioni alle emozioni sono sempre…emotive, quindi irrazionali: di fronte, ad esempio, ad una grande paura, possiamo reagire con comportamenti adeguati (come la fuga o restare chiusi in casa) oppure, viceversa, la paura è così grande per la nostra mente, che possiamo reagire con comportamenti di rischio, finalizzati non a proteggerci, ma ad esorcizzare quest’emozione che non ci piace.
Il nostro cervello tende a programmarsi, dunque, a condizionarsi, portandoci a reagire in modo automatico: questi automatismi possono essere modificati, ma solo se si agisce in modo attivo e consapevole.
Bisogna perciò allenare il cervello ad affrontare le cose sforzandosi di vederle da differenti punti di vista, prendendosi un po’ più di tempo, in modo da essere più riflessivi, e mettendo in campo più presenza di spirito.
Il primo passo nella situazione pandemica che stiamo vivendo, con il confinamento prima e con la fase 2 adesso, potrebbe essere quello di cominciare a vedere che nelle avversità ci sono opportunità.
Occorre concentrarsi su quello che abbiamo, per poco che possa essere, e non su quello che ci manca, ma soprattutto dovremmo ri-imparare ad affrontare le difficoltà che la vita ci presenta, come sfide, ostacoli da superare, anziché ingiustizie o sfortune di cui lagnarci.
Per essere migliori, dunque, dobbiamo porci obiettivi, perseguirli in modo consapevole, riflettere sulle nostre mete inconsce e guardare alle avversità come sfide e non solo saremo migliori, ma saremo anche resilienti.