Con una cadenza e una frequenza impressionanti, le cronache ci raccontano di femminicidi, spesso con annesso figlicidio.
Nonostante il codice etico, che si sono dati all’Ordine dei giornalisti, sottoscritto nel Manifesto di Venezia del 25 novembre del 2017), queste notizie vengono quasi sempre riportate in maniera scorretta, dannosa e fuorviante, anche dal punto di vista della malattia mentale.
L’opinione pubblica ricerca la causa di questi gesti efferati nel disagio mentale,
nella depressione scaturita dalla crisi coniugale.
Attribuire le colpe di un omicidio alla vittima è immorale , ma è anche “clinicamente” sbagliato.
Un individuo depresso non commette omicidio: nelle forme gravi di depressione, chi ne è affetto, ci dicono gli studi clinici ed epidemiologici, può avere idee suicidarie e tentare di metterle in pratica, ma non ha le energie mentali per uccidere, magari a seguito di un eccesso di rabbia o per pianificare uno o più omicidi.
Solo nel caso della più grave forma di depressione post partum (DPP), che è un caso davvero particolare, possiamo assistere al suicidio con omicidio del bambino: questo avviene, perché il legame tra madre e neonato è di tipo simbiotico e ciò vuol dire che non c’è una netta distinzione tra la propria identità e quella del bambino (più è piccolo e più questa unione è stretta); per capire questo fatto, basti pensare, che l’esame elettroencefalografico evidenzia come le onde cerebrali di mamma e bebè siano sincronizzate tra loro. Per questa ragione la mamma uccide il figlio, che non viene percepito come “altro da sé”, ma come parte di se stessa. Va anche detto che in questo tipo di DPP, quasi sempre c’è la compresenza di una forma di disturbo psichiatrico più grave, rimasto latente.
Allora perché questi mariti e padri “esemplari” uccidono?
Partiamo dal primo fatto: forse così esemplari non erano.
Erano depressi? Può darsi, ma non è sicuramente la depressione che li ha spinti ad uccidere, come abbiamo visto.
Allora perché uccidono le ex compagne e magari anche i loro figli? Se escludiamo la depressione e, più in generale la malattia mentale, che cosa può influenzare il comportamento di un essere umano così tanto da spingerlo all’omicidio?
Secondo il paradigma bio-psico-sociale, modello condiviso di tipo olistico globale ed integrato, per la lettura del funzionamento dell’essere umano, ogni individuo è il frutto dell’interazione intricata e variabile di fattori biologici (genetici, biochimici, etc.), psicologici (umore, personalità, comportamento etc.) e sociali (culturali, familiari, socio-economici, ecc.).
A questo punto possiamo dire che
– la prima spinta ad uccidere una donna (e i propri figli) è di tipo socioculturale: la cultura maschilista e patriarcale, ancora fortemente radicata nella nostra società, vuole la donna priva di propri desideri e aspirazioni, dipinta nelle due accezioni antitetiche di santa/puttana, subalterna all’uomo, “creata” per lui, per compiacerlo: questo fa si che per molti uomini sia ancora inaccettabile essere lasciati, perché la donna è un gradino sotto all’uomo, più vicina ad un oggetto che ad un essere umano, un oggetto di cui disporre, che non può essere dotato di autonomia decisionale: se mi lasci ti annullo, se ti lascio e ti innamori di qualcun altro, ti uccido, perché sei una mia proprietà.
– La seconda spinta è di tipo psicologico: parliamo di narcisismo, dell’incapacità di sopravvivere alla ferita del non essere più amati, dell’essere rifiutati e lasciati o dell’essere “sostituiti” da una nuova relazione, ma un narcisismo che non è più da intendersi solo come patologia, frutto di un’educazione che spinge l’individuo a sentirsi centro dell’universo, e quindi onnipotente, non allenato a sopravvivere alle sconfitte e non in grado di accogliere, come degne, emozioni e desideri altrui, ma anche come atteggiamento sempre più diffuso e strisciante nella società, come modello condiviso, in cui “l’altro” scompare piano piano e in cui assistiamo ad una progressiva perdita di identificazione ed empatia: la ferita può essere così forte, bruciante ed intollerabile, e il conseguente desiderio di rivalsa e vendetta così forti, da spingere l’individuo a mettere in atto la propria onnipotenza in senso letterale, come potere divino di vita e di morte sull’altro.