Nella notte tra il 13 e il 14 novembre scorso, come tutti sappiamo, il mondo ha perso un altro po’ di senso.
Il mio primo pensiero è stato per la mia compagna di università che vive a Parigi e sincerarmi che stesse bene.
L’attimo dopo ho pensato che ha una figlia: siamo professioniste del settore, ma essere madri e essere dentro ai fatti, a due passi dagli attentati, ti può mandare in corto circuito il cervello…e poi ho pensato alle mie bimbe e a cosa avrei dovuto raccontare loro.

Penso che una delle prime cose che sarà venuta in mente alla maggior parte di noi sia stata proprio come parlarne ai bambini.

In questi giorni, sono stati numerosissimi i contributi in tal senso e la maggior parte di essi sono stati ineccepibili (per cui mi sono risparmiata dal dire la mia).

Mi sono confrontata a cuore aperto anche nel gruppo Genitoricrescono su Facebook (qui potete leggere il bel post che ha scritto Silvia in proposito http://genitoricrescono.com/mano-nella-mano-dopo-parigi/) e ho riflettuto su cosa far sapere alle mie figlie, attingendo non solo alle competenze professionali, ma anche all’esperienza di figlia cresciuta negli Anni di Piombo.

Ieri, però, ho letto questo articolo
https://www.uppa.it/blog/attentati-di-parigi-i-bambini-ci-guardano/

Sicuramente corretto nella risposta, mi ha però lasciata perplessa, perchè non tocca un punto per me fondamentale: i bambini piccoli NON DOVREBBERO GUARDARE IL TELEGIORNALE.

La storia della ricerca psicologica e sociologica sul rapporto tra media e minori, la dice lunga sulla preoccupazione che la televisione ha da sempre destato: ad esempio gli studi di Bandura negli anni ’60 (“What Tv violence can do to your child”) in  cui veniva ipotizzato un influsso sul modellamento (https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_dell’apprendimento_sociale) e quindi un’imitazione dei comportamenti violenti, oppure la teoria dell'”incubazione culturale” del francese Gerbner, pubblicata nel 1995, secondo cui l’esposizione ad un certo tipo di immagini potrebbe attivare una progressiva desensibilizzazione alla violenza reale.

Nel 1997, nel libro “Cara TV con te non ci sto più” (di Lodi, Pellai e Slepoj, ed. Franco Angeli), la psicoterapeuta Vera Slepoj, parlava addirittura di trauma da video, riferendosi al possibile impatto, appunto, traumatico che possono avere le esperienze percettive ed emotive che il video ci impone, soprattutto per chi, come i bambini, ha un apparato psichico fragile (io preferisco definirlo come “non ancora strutturato”) e non è in grado di rielaborare i propri vissuti in merito. Pensiamo, allora, a quanto male può fare quando non si tratta di finzione, ma di racconto della realtà!

 

Ma allora, perchè mHenri-Grant-Children-watching-television-1953ai una bambina in età prescolare stava guardando il tg?

 

Proprio perchè, come scrive il dott. Conti Nibali nell’articolo, “I bambini capiscono molto di più di quanto noi possiamo immaginare”, perchè non poniamo più attenzione a cosa li esponiamo?

E’ doveroso spiegare ai bambini le cose, è doveroso non mentire loro, è doveroso avere il coraggio di parlare loro delle nostre paure, trovando il modo di rassicurarli comunque e dobbiamo essere disponibili a parlare con loro di qualunque cosa, perchè è proprio attraverso il dialogo con noi che possono crescere, dotati degli strumenti idonei per affrontare la vita.

Ma insegneremmo mai le divisioni ad un bambino di tre anni, prima che il suo sistema nervoso si sia strutturato abbastanza cosicchè le possa comprendere? Credo proprio di no.

Allora perchè lasciamo che vedano o sentano cose che, non solo sono al di fuori della loro più piena comprensione, ma anche fonte di probabile turbamento emotivo?

Li sopravvalutiamo? Li sottovalutiamo, pensando di potergli raccontare che hanno capito male? O siamo solo così tanto distratti da dimenticarci la loro fragilità? Oppure siamo così egoisti, che il nostro bisogno di guardare il tg ci fa dimenticare dei loro bisogni?

Allora, finchè possiamo, lasciamo che pensino che i Draghi possono essere sconfitti, e quando avranno maggiori competenze emotive e la capacità di avere comunque fiducia e non lasciarsi sopraffare dall’angoscia, un poco alla volta, spiegheremo come va il Mondo.

 

Per il tema del mese, Generazioni, Serena rilancia sulla pagina Facebook di GenitoriCrescono un mio vecchio pezzo, con questa riflessione:

 

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lo scontro generazionale passa anche attraverso i nostri tabù personali in termini di educazione sessuale. Come tenete a bada i vostri tabù quando parlate di sessualità con i vostri figli?

Buona lettura, per chi ne ha voglia

http://genitoricrescono.com/tabu-personali-educazione-sessuale/

 

Nella mia pratica professionale, mi capita sempre più spesso di aiutare le persone ad elaborare il lutto di una separazione o di un divorzio, o a sostenere i futuri ex coniugi nel passaggio ai nuovi assetti familiari coi figli.

Anche se il moderno immaginario comune da social network ( e non solo) descrive quest’esperienza come catartica e positiva, un divorzio è sempre doloroso e rappresenta sempre, sia per chi viene lasciato che per chi lascia, un fallimento.

Per i figli, se è pur vero che meritano dei genitori sereni e felici, la separazione della mamma e del papà è un trauma, una crisi con cui dovranno fare i conti, prima o poi, nel loro percorso di crescita.
Spesso le coppie potrebbero sopravvivere alle difficoltà che, nell’arco di una vita, sono inevitabili, magari con l’aiuto dello psicologo, qualora non riescano a trovare da soli risorse e strategie.

Purtroppo, nella maggior parte dei casi, “si parla” quando è troppo tardi e si tende a fare una sorta di autopsia della relazione, quando ormai l’unione è finita: ognuno si chiede cosa non ha funzionato, cerca preferibilmente gli errori dell’altro ed è indulgente coi propri; e la conclusione è, troppo spesso, un “è meglio così, almeno posso rifarmi una vita”: e si parte alla ricerca di un nuovo compagno/a con cui mettere su un’altra famiglia, rischiando di diventare dei “monogami seriali”, felici a quinquenni/decenni alterni.

In generale sappiamo che il 9% circa dei matrimoni più recenti non sopravvive alla crisi del settimo anno e che la durata media dei matrimoni che sfociano in una separazione è di 16 anni (fonte: http://www.istat.it/it/archivio/126552 ).

La società tutta si chiede come mai i matrimoni oggi sembrano funzionare meno di un tempo e la psicologia prova a dare probabili letture di ciò che accade.

Ma io in questi giorni (come fece prima di me l’illustre collega Donata Francescato in una riedizione del suo libro “Quando l’amore Finisce” http://www.ibs.it/code/9788815090300/francescato-donata/quando-amore-finisce.html), mi sto interrogando su cos’è che fa durare una coppia.

Attorno a me, nella mia vita privata, sono ormai circondata da coppie scoppiate, più che da famiglie felici e sono rimasta tra i pochi ad essere ancora sposata (per g25 NONNI coloriiunta, felicemente).

Quando un fenomeno di cui ti occupi arriva a riguardare le persone che ami, le domande che già ti ponevi per professione, le fai a te stesso ( e a tuo marito…): perché noi siamo felici? Come abbiamo fatto a restare indenni, finora, come coppia? Come ha fatto la nostra unione a sopravvivere alle notti insonni coi bebè, ai chili di troppo e la calvizie incipiente, alle frustrazioni lavorative, ai cambi di casa, al minor benessere economico, al minor tempo libero, ai lutti, all’invecchiamento dei genitori e alla routine?
Mio marito sostiene che è tutto merito suo e della sua proverbiale pazienza…ma come risposta non mi basta (non solo perché conosco davvero la sua pazienza), ma perché non credo alla fortuna di esserci incontrati: da sola non basta. Ho bisogno di risposte , non solo per continuare ad essere felice, ma per avere più strumenti a mia disposizione per aiutare quelle coppie che si rivolgono a me prima che sia troppo tardi o quegli individui che mi chiedono aiuto per non fallire di nuovo in un progetto di vita a due.

La prima risposta mi è venuta dalla pratica clinica, attraverso le testimonianze dei miei clienti divorziati e delle coppie in crisi, ho riscontrato degli errori comuni, e ho provato a tirarne fuori 3 “regole d’oro” per aiutare la coppia a non perdersi e proseguire felicemente il proprio viaggio a due:
1) dirsi quando qualcosa non va: comunicare le piccole insoddisfazioni, i piccoli malesseri, i piccoli disagi, perché il rischio è di aprire bocca quando si scoppia, quando la frustrazione ha coltivato rabbia e aggressività e parlare non serve più per costruire ma per ferire.
2) mai dare per scontata la felicità dell’altro: in un’ottica egocentrica, se stiamo bene noi, sta per forza bene anche il partner e spesso chiediamo “sei felice?” solo per essere rassicurati (magari da una bugia) e non per controllare lo stato della coppia.
3) mantenere spazi di condivisione e complicità di coppia (un hobby condiviso, un momento quotidiano, un appuntamento ”fisso”): troppo spesso, col tempo, vanno persi, per avere, invece, spazi individuali sempre più estesi e impegni a due magari solo come genitori.

La seconda risposta me l’ha data il mio amato Alfred Adler che, negli anni ’20, sosteneva che il matrimonio è l’aspetto più alto dell’amore e che l’amore rappresenta l’attaccamento ad un’altra persona manifestato attraverso attrazione fisica e amicizia, ma può funzionare soltanto se tra i due c’è una piena cooperazione e ciascuno dei due membri della coppia ha maggiori riguardi per l’altro che non per se stesso.

L’ultima risposta mi viene da un libro che con le coppie e il matrimonio, apparentemente, non ha nulla a che vedere, “Resisto dunque sono” di Pietro Trabucchi, un libro che parla di psicologia e sport e di “resilienza” (sulla resilienza forse potresti anche leggere: http://genitoricrescono.com/vaccinare-figli-contro-dolore/ ).
È proprio la personale definizione che ne da il mio stimato collega, che, a mio parere, calza alla perfezione ai matrimoni che funzionano, completando l’analisi che fece a suo tempo Adler:

“La resilienza psicologica è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino”

in cui la scelta del verbo “persistere” è per sottolineare l’idea di una motivazione che rimane salda (http://www.pietrotrabucchi.it/content.asp?ID=3 )

 

A questo punto, penso proprio che il “segreto” di un matrimonio che dura, sia la regola dei miei genitori: voler restare sposati e dirsi OGNI MATTINA, mettendo giù i piedi dal letto, “voglio che il mio matrimonio funzioni e oggi farò di tutto perché ciò accada”.