Dopo oltre un anno, cominciamo a fare i conti anche in termini di salute mentale, con l’impatto che ha avuto la pandemia su di noi.

Per i bambini, vedremo tra qualche tempo, quali saranno le conseguenze a lungo termine di restrizioni, isolamento e DAD sulla loro crescita, ma sugli adolescenti sappiamo già oggi che sono aumentati gli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio (dati diffusi dal Garante dell’Infanzia e adolescenza Carla Garlatti e dati raccolti dall’Ospedale pediatrico Bambino Gesù):

durante questo periodo di stravolgimento mondiale, i giovani hanno sviluppato stanchezza cronica, demotivazione allo studio, tristezza, appiattimento dell’affettività o maggiore irritabilità e, nelle forme più importanti, depressione del tono dell’umore, ansia, attacchi di panico, irrequietezza, impulsività e, nei casi estremi, disturbi di tipo psicotico (per approfondire https://www.dors.it/page.php?idarticolo=3548).

Senza ombra di dubbio gli adolescenti sono la categoria più colpita dalla pandemia.

Purtroppo, ogni volta che si parla della situazione psicologica dei ragazzi, i commenti sono davvero deprecabili: è una gara a chi sta peggio, in cui i cosiddetti adulti, pretendono il primato dell’attenzione, minimizzando e svalorizzando l’esperienza dei nostri giovani.

Secondo l’opinione diffusa, se gli adolescenti ora stanno pagando il prezzo più alto in termini di salute mentale, è solo colpa loro, quindi, in seconda istanza, delle loro famiglie: chi soffre davvero, secondo il popolo dei social e dei bar, sono solo gli anziani o gli adulti “produttivi”.

La verità è che le cause di questo grave malessere, non sono da ricercare nelle carenze educative familiari, ma riguardano con le caratteristiche neurobiologiche del cervello umano, durante quello specifico momento del nostro sviluppo: l’adolescenza non è un passaggio tra la vita infantile e quella adulta solo in senso filosofico o figurato, ma è qualcosa di concretamente determinato.

Grazie agli studi di neurobiologia e neurofisiologia, sappiamo che un cervello tra la pre-adolescenza e fino ai venti-venticinque anni, subisce grandi trasformazioni strutturali, a causa dei fenomeni della “potatura sinaptica” e della “mielinizzazione”:

vengono concretamente eliminate il 50% delle connessioni sinaptiche, che si sono formate durante l’infanzia, selezionando quelle maggiormente utilizzate (più i circuiti vengono attivati/usati, più si rafforzano, meno sono utilizzati, più probabilmente vengono potati in adolescenza) e contemporaneamente la mielina quasi raddoppia, rendendo più rapida la propagazione dei messaggi nervosi. Aggiungiamo che, il cervello degli adolescenti è caratterizzato da una maggior attività nelle aree limbiche, e quindi le loro emozioni sono più intense, esplosive e altalenanti.

Questi cambiamenti cerebrali spingono gli adolescenti all’esplorazione creativa, al coinvolgimento sociale e alla ricerca di novità, attività cessate nel lockdown e che si sono ridotte al nulla, con la mancata riapertura di scuole e attività sportive e culturali.

 

Questa grande plasticità cerebrale, costituisce non solo un’opportunità, ma anche una grande fragilità e vulnerabilità: il cervello adolescente è particolarmente sensibile agli stress, di qualsiasi natura, fisici, tossici, psicologici e relazionali, che possono molto più facilmente produrre effetti negativi, rispetto ad un cervello adulto, più strutturalmente stabile.

Alla luce di queste informazioni scientifiche, è chiaro perché questa situazione ha rappresentato e sta rappresentando una prova drammatica per la crescita dei nostri ragazzi.

Proviamo a ricordarci davvero di come eravamo e proviamo a stare loro accanto, perché il nostro comportamento nei loro confronti può fare tanto, in termini di protezione e cura: non dimentichiamoci che anche noi siamo stati adolescenti e che loro sono il nostro futuro.

Non esitate a chiedere aiuto come genitori o a chiederlo per i vostri figli!

 

Nella mia pratica professionale, mi capita sempre più spesso di aiutare le persone ad elaborare il lutto di una separazione o di un divorzio, o a sostenere i futuri ex coniugi nel passaggio ai nuovi assetti familiari coi figli.

Anche se il moderno immaginario comune da social network ( e non solo) descrive quest’esperienza come catartica e positiva, un divorzio è sempre doloroso e rappresenta sempre, sia per chi viene lasciato che per chi lascia, un fallimento.

Per i figli, se è pur vero che meritano dei genitori sereni e felici, la separazione della mamma e del papà è un trauma, una crisi con cui dovranno fare i conti, prima o poi, nel loro percorso di crescita.
Spesso le coppie potrebbero sopravvivere alle difficoltà che, nell’arco di una vita, sono inevitabili, magari con l’aiuto dello psicologo, qualora non riescano a trovare da soli risorse e strategie.

Purtroppo, nella maggior parte dei casi, “si parla” quando è troppo tardi e si tende a fare una sorta di autopsia della relazione, quando ormai l’unione è finita: ognuno si chiede cosa non ha funzionato, cerca preferibilmente gli errori dell’altro ed è indulgente coi propri; e la conclusione è, troppo spesso, un “è meglio così, almeno posso rifarmi una vita”: e si parte alla ricerca di un nuovo compagno/a con cui mettere su un’altra famiglia, rischiando di diventare dei “monogami seriali”, felici a quinquenni/decenni alterni.

In generale sappiamo che il 9% circa dei matrimoni più recenti non sopravvive alla crisi del settimo anno e che la durata media dei matrimoni che sfociano in una separazione è di 16 anni (fonte: http://www.istat.it/it/archivio/126552 ).

La società tutta si chiede come mai i matrimoni oggi sembrano funzionare meno di un tempo e la psicologia prova a dare probabili letture di ciò che accade.

Ma io in questi giorni (come fece prima di me l’illustre collega Donata Francescato in una riedizione del suo libro “Quando l’amore Finisce” http://www.ibs.it/code/9788815090300/francescato-donata/quando-amore-finisce.html), mi sto interrogando su cos’è che fa durare una coppia.

Attorno a me, nella mia vita privata, sono ormai circondata da coppie scoppiate, più che da famiglie felici e sono rimasta tra i pochi ad essere ancora sposata (per g25 NONNI coloriiunta, felicemente).

Quando un fenomeno di cui ti occupi arriva a riguardare le persone che ami, le domande che già ti ponevi per professione, le fai a te stesso ( e a tuo marito…): perché noi siamo felici? Come abbiamo fatto a restare indenni, finora, come coppia? Come ha fatto la nostra unione a sopravvivere alle notti insonni coi bebè, ai chili di troppo e la calvizie incipiente, alle frustrazioni lavorative, ai cambi di casa, al minor benessere economico, al minor tempo libero, ai lutti, all’invecchiamento dei genitori e alla routine?
Mio marito sostiene che è tutto merito suo e della sua proverbiale pazienza…ma come risposta non mi basta (non solo perché conosco davvero la sua pazienza), ma perché non credo alla fortuna di esserci incontrati: da sola non basta. Ho bisogno di risposte , non solo per continuare ad essere felice, ma per avere più strumenti a mia disposizione per aiutare quelle coppie che si rivolgono a me prima che sia troppo tardi o quegli individui che mi chiedono aiuto per non fallire di nuovo in un progetto di vita a due.

La prima risposta mi è venuta dalla pratica clinica, attraverso le testimonianze dei miei clienti divorziati e delle coppie in crisi, ho riscontrato degli errori comuni, e ho provato a tirarne fuori 3 “regole d’oro” per aiutare la coppia a non perdersi e proseguire felicemente il proprio viaggio a due:
1) dirsi quando qualcosa non va: comunicare le piccole insoddisfazioni, i piccoli malesseri, i piccoli disagi, perché il rischio è di aprire bocca quando si scoppia, quando la frustrazione ha coltivato rabbia e aggressività e parlare non serve più per costruire ma per ferire.
2) mai dare per scontata la felicità dell’altro: in un’ottica egocentrica, se stiamo bene noi, sta per forza bene anche il partner e spesso chiediamo “sei felice?” solo per essere rassicurati (magari da una bugia) e non per controllare lo stato della coppia.
3) mantenere spazi di condivisione e complicità di coppia (un hobby condiviso, un momento quotidiano, un appuntamento ”fisso”): troppo spesso, col tempo, vanno persi, per avere, invece, spazi individuali sempre più estesi e impegni a due magari solo come genitori.

La seconda risposta me l’ha data il mio amato Alfred Adler che, negli anni ’20, sosteneva che il matrimonio è l’aspetto più alto dell’amore e che l’amore rappresenta l’attaccamento ad un’altra persona manifestato attraverso attrazione fisica e amicizia, ma può funzionare soltanto se tra i due c’è una piena cooperazione e ciascuno dei due membri della coppia ha maggiori riguardi per l’altro che non per se stesso.

L’ultima risposta mi viene da un libro che con le coppie e il matrimonio, apparentemente, non ha nulla a che vedere, “Resisto dunque sono” di Pietro Trabucchi, un libro che parla di psicologia e sport e di “resilienza” (sulla resilienza forse potresti anche leggere: http://genitoricrescono.com/vaccinare-figli-contro-dolore/ ).
È proprio la personale definizione che ne da il mio stimato collega, che, a mio parere, calza alla perfezione ai matrimoni che funzionano, completando l’analisi che fece a suo tempo Adler:

“La resilienza psicologica è la capacità di persistere nel perseguire obiettivi sfidanti, fronteggiando in maniera efficace le difficoltà e gli altri eventi negativi che si incontreranno sul cammino”

in cui la scelta del verbo “persistere” è per sottolineare l’idea di una motivazione che rimane salda (http://www.pietrotrabucchi.it/content.asp?ID=3 )

 

A questo punto, penso proprio che il “segreto” di un matrimonio che dura, sia la regola dei miei genitori: voler restare sposati e dirsi OGNI MATTINA, mettendo giù i piedi dal letto, “voglio che il mio matrimonio funzioni e oggi farò di tutto perché ciò accada”.